Quasi evaporato in una coltre di umido tramonto capitolino, ventilatore annesso acceso, Sir Dave Holland classe 1946, tra gli ultimi pionieri di quella generazione di fenomeni che hanno principiato la loro carriera dando i natali al miglior sound dei ’70, calca il palcoscenico di Villa Osio a Roma, lunedì 17 luglio scorso, con la lucidità del tempo passato e l’entusiasmo di quello a venire.
Come sovente suole accadere nei lavori del grande musicista britannico, in principio fu un ostinato di basso. Il vecchio Dave sembra un cacciatore di leoni di hemingwayane reminiscenze, uscito dal fumo di una polvere da sparo all’alba, magari su quelle verdi colline d’Africa. La battuta di caccia ha inizio, nell’aria torrida di una Roma cosparsa di invisibile umida coperta. Ritmicamente ineccepibile e mai banale, il concerto ha guizzi visionari improvvisi: brani da 16 o 32 battute “più due” (le più imprevedibili), spostamenti ritmici tribali, melodie dal sapore pentatonico alle quali il tuo orecchio, prima ancora di affezionarcisi, affida i ruoli di solismo ed al contempo di impalcatura.
Sir. Holland spicca ma senza invadere; I compagni di viaggio si stagliano nell’aria della sera con spirito di abnegazione invidiabile, creando da subito il miglior interplay possibile. Sono pali conficcati nel terreno, eroici architravi di bellezza.
La pianista Kris Davis, rivelazione degli ultimi due decenni, non ha pari nella gestione dello spazio: mano sinistra poco invadente, mano destra sempre a servizio delle frasi e del canto, tocco elegante che rimembra i suoi classici studi. Cuore e pulizia, istinto che non sacrifica l’estetica.
Il sassofonista Jaleel Shaw, stessa generazione della Davis, un prestigiatore del fraseggio: grande tecnica, istinto black ma senza eccessi, suono rotondo e lineare, quartine da tradizione e d’avanguardia: la potenza di un Sonny Stitt, la modernità di un Mark Turner.
Il batterista Nasheet Waits, di una generazione precedente agli altri due, giovane eroe della scena ’90 e grande conferma dei tempi attuali. Drumming incalzante sempre ma mai sovrastante, vario e imprevedibile come pochi, un uso del charleston da “non provateci voi a casa”.
Come ho premesso, tutto ciò che ci si può attendere è quel che non ci si aspetta. Il cambiamento continuo e gli ostinati afro sono il miglior gioco del quartetto, racchiuso in una cornice di grande eleganza e di raro impatto estetico. A dimostrazione di tanta varietà vi è oltremodo una delle rare ballad della serata la quale, a dispetto della prevedibilità di cui parlavo, viene firmata dal batterista (uno dei momenti più alti del concerto). E poi c’è lui, il cacciatore di leoni, che a quasi 77 anni ci fa ascoltare lo stesso suono che aveva con Miles e Wayne a fine ’60, sublimato e sovrastrutturato con l’esperienza di quasi un cinquantennio di ricerca personale nelle varie formazioni che ha capitanato, dai gruppi più light alle modern-combos.
Un concerto dal predominio estetico strabordante e dall’impatto emotivo difficilmente controllabile, terminato con un bis bluesy da -ritorno alle origini-, che ricorda a tutti noi rapiti da questa musica di aver venduto l’anima al diavolo molto tempo fa.
di Danilo Blaiotta